ARCHIVIO GITE 2014: Alta Via di Merano

12-20 luglio 2014 L’Alta Via di Merano, come non dice il nome, di alta montagna ha ben poco: se ci si aspetta un’esperienza come quella delle alte vie dolomitiche, si resterà delusi. Infatti la principale attrattiva del giro è invece immergersi in una media montagna ancora vissuta dai contadini e assai curata, a differenza di quanto capita dalle nostre parti. Infatti il giro ad anello attorno al gruppo del Tessa si snoda principalmente attorno a quota 1500, nel pieno della fascia altitudinale dei masi e degli alpeggi.
Oggi il loro sostentamento deriva da un misto di pastorizia e turismo. Della prima, senz’altro ciò che più impressiona il viaggiatore sono i loro prati: ripidissimi, anche oltre i 30°, sono tutti perfettamente falciati. Nel corso del tragitto vedremo i contadini all’opera: nelle zone un po’ meno ripide (ma non certo in piano) usano una falciatrice motorizzata, con due larghi rulli metallici chiodati come ruote, che riesce ad andare in traverso anche sui prati ripidi. Sui pendii dove uno scialpinista avrebbe timore a salire falciano a mano. Il latte delle mucche non serve a produrre formaggi, che hanno un ruolo marginale, ma piuttosto burro e yogurt, che ci verranno serviti a profusione. Alcuni masi più turistici producono per il consumo in loco, altri mostrano il marchio di qualche produttore locale a cui è destinato il latte. Sono molto curati anche gli edifici, prevalentemente in legno come vuole la cultura germanica (anche se in quelli in ristrutturazione si vede che ora usano un’intelaiatura di cemento e mattoni che rivestono in legno). Sulle porte vediamo delle lettere e delle cifre scritte col gesso di cui ci domandiamo il significato. I locali sembrano imbarazzati a rispondere e non solo per la barriera linguistica, ma una signora tedesca ci spiega che sono delle benedizioni. Per quanto riguarda il lato turistico, va detto che si sostiene quasi esclusivamente sui tedeschi. Per dare un’idea, la pagina Facebook tedesca dell’Alta Via ha 7000 ‘Mi piace’, contro i 5 di quella italiana. Infatti abbiamo marciato in parallelo con molti tedeschi e nessun italiano. Anche nelle zone in cui era possibile accedere con passeggiate in giornata, era ben difficile incrociare italiani nella folla di escursionisti. Un cameriere, vedendoci arrivare a piedi, è venuto da noi col menu in tedesco e si è sorpreso quando ci ha sentito parlare; una cameriera, che non aveva mai visto in vita sua dei torinesi, che per di più sapevano qualche parola della sua lingua, ci ha chiesto della nostra esotica patria come se fosse l’Australia. D’altronde qui in Piemonte sulla GTA ho incontrato solo loro, figuriamoci lì. Solo ad agosto passa qualche italiano in più.
Sul versante dell’accoglienza, basti dire che non abbiamo mai pranzato con un panino, ma sempre con piatti caldi nei masi o nei rifugi. L’operazione più critica della giornata è al mattino in fase di programmazione, quando bisogna individuare sulla carta il maso ottimale, tra i quattro o cinque che attraverseremo, per accomodare le gambe sotto al tavolo: il nodo nevralgico è strutturare la sosta in modo che non sia né troppo ravvicinata alla colazione a base di pane tirolese con speck, burro e marmellata, ma nemmeno alla cena di patate e salsiccia. Bisogna anche calcolare il tempo necessario per smaltire la Forst di mezzogiorno, in previsione della Hefe Weisse dell’aperitivo (il vino è meglio lasciarlo perdere). Inoltre bisogna studiare bene le isoipse sulla carta, per non trovarsi una spiacevole salita a stomaco pieno. Uno degli ultimi giorni, arrivando a un maso per una ripida discesa, abbiamo incrociato una manica di sventurati in verso opposto, che salendo dopo un pasto certamente abbondante, sotto il sole delle ore centrali, sembravano sul punto di stramazzare. In queste soste si è fatto valere su tutti un distinto signore della buona borghesia, per l’occasione senza moglie bio-vegan-salutista al seguito. Quanto a me, evidentemente non sono stato all’altezza, perché nel trek sono calato di un chilo. Eppure avevo cominciato bene: ero partito con l’idea di provare il Kaiserschamrren mit Preiselbeeren appena possibile. Al primo rifugio, tra l’invidia dei miei compagni, mi sono fatto servire il gigantesco piatto dorato e ne ho fatto assaggiare un po’ anche a loro, che hanno fatto tutti voto di provarlo al più presto. Però poi devo essere andato in calando: troppe Kohlsalaten, persino senza Wurst, troppo Joghurt mit frischen Obst, niente Spiegeleier mit Schinken und Kartoffeln (una volta ho persino rischiato di mangiare Buchweizen…).

Negli intervalli tra le digestioni, siamo riusciti ad apprezzare qualche aspetto naturalistico. L’ambiente che si attraversa più a lungo sono gli ombrosi boschi di abete rosso, che crescono spesso tra grandi massi. Ricordano i boschi dell’Ossola: d’altronde sono simili il clima continentale e le rocce coerenti che si fratturano in blocchi. I primi due giorni, i più umidi del viaggio, nei tratti più verdi la foresta sembrava come popolata dalle fate, o dalle streghe nei tratti nebbiosi. Quest’inverno è nevicato copiosamente e molti abeti, a causa delle loro radici poco profonde, sono caduti: ne contiamo moltissimi segati per liberare il sentiero (la cura dei sentieri è ovunque eccellente). Il consorzio forestale cambia solo quando ci inoltriamo nella val Venosta, dove, per via del clima più secco, si passa a boschi di larici e anche pini silvestri, con diversi tratti di ambienti assolati e aridi dove i semprevivi crescono in mezzo ai prati anziché tra le solite fessure delle rocce. Notevole l’interesse geologico. Il Gruppo di Tessa si trova sul confine tra due falde diverse, una a prevalenza di gneiss e una di marmo. Lungo il sentiero per il Passo Gelato, si trova un curioso masso, formato da un sottile strato di gneiss racchiuso tra due calotte di marmo, una sorta di panino roccioso. Per quanto riguarda la fauna, la zona non ci ha offerto molto. L’incontro più emozionante ce l’abbiamo una sera in rifugio, quando un daino col suo harem di due femmine viene a brucare l’erba accanto al recinto dei maiali. Una sera due cervi passano poi sopra l’Eishof, ma sono così lontani da essere due puntini. In questa zona gli animali sono molto schivi, perché nonostante sia parco, ai locali è permesso cacciare. Questa politica è stata adottata per impedire i problemi di sovrapascolamento e epidemie, che sorgono negli ecosistemi senza predatori naturali e sono una piaga endemica del vicino parco dello Stelvio, dove invece la caccia è vietata.
Ci sono poi qua e là singole emergenze. Ad esempio c’è l’unica tappa nella fascia alpina, che si snoda su una mulattiera tracciata a fine Ottocento, all’epoca della costruzione del rifugio sul passo, e successivamente ripristinata dalle truppe alpine, come ricordano alcune incisioni sulla roccia. Quel giorno optiamo per una variante, che anziché scendere direttamente a valle percorre un lungo mezzacosta di saliscendi sfinenti: quando si arriva a monte della Schneidalm e comincia la discesa verso Pfelders è come una liberazione. Però è anche molto bella: si cammina su pendii erbosi e cenge rocciose tra i dirupi, andando a cercare i passaggi praticabili. Di bellezza davvero orrida, da sublime romantico, una gola profonda che si supera standone poco a monte e si può ammirare dall’alto. Arriviamo a Pfelders ormai con la luce della sera, esausti, mentre le mucche tornano alla stalla guidate dai bambini. Non abbiamo neanche il tempo di farci una doccia prima di cena, ma tutto sommato la variante vale la pena. Unica nota stonata della tappa, una scivolata su un nevaio ripido, che è costata a due del gruppo la prosecuzione del viaggio.
Ci sono poi le gole del rio Saltauser e del rio Lahn. Per arrivare alle prime, si percorre una cengia artificiale scavata con la dinamite, che taglia un pendio quasi verticale. Il letto del torrente è colmo di tronchi sradicati dalle frane o dalla neve e portati giù della piena. Le seconde sono altrettanto impervie, ma un po’ più gentili: si passa prima ai piedi di un’alta cascata, si supera quindi una dorsale e si entra in un vallone roccioso, dove un copioso torrente fa diversi salti in un impluvio incavato. Il sentiero è stato sistemato con abbondante impiego di gradini in legno, pietra e metallo, tanto da meritarsi il nome di ‘Sentiero dei 1000 scalini’. Che sono poi 1200, come conta un pignolo scialpinista, che per la sua formazione non ama alzare le gambe, ma soprattutto percorrere i saliscendi che tocca affrontare per oltrepassare questa gola.
In effetti l’altimetria dell’Alta Via è un po’ insolita, per chi è abituato alle classiche gite sulle vette delle Alpi, in cui al mattino si sale e al pomeriggio si scende. Qui invece il percorso si snoda quasi sempre in quota, sui sentieri e le mulattiere che permettevano i collegamenti tra i masi di montagna, senza bisogno di scendere a valle. Dato che i versanti sono molto ripidi e scoscesi, i tracciati devono incunearsi nei valloni, per poi riemergere sulla dorsale, per poi sprofondare in un nuovo impluvio e così all’infinito, andandosi a cercarsi i passaggi praticabili. Si va allora su e giù tutto il giorno, con un passo che balla al ritmo sincopato dei saliscendi, senza regolarità.
In genere le tappe non sono lunghe e i dislivelli contenuti: si tratta di rilassanti passeggiate in ambiente idilliaco. L’ultima tappa è però più faticosa e per di più la affrontiamo in un’atmosfera afosa. Nel finale ci tocca ancora un’ultima ripida salita, spesso sui gradini, per guadagnare quasi 300 metri, in un bosco ombroso ma non abbastanza fresco. A nulla vale il rifornimento di fresca Apfelsaftschorle all’ultimo maso. Sono le 18 e il piacere di camminare è ormai svanito, sostituito dall’ansia di arrivare in tempo per la cena o dal semplice desiderio che la purga finisca al più presto: uno corre veloce verso il rifugio, alcuni si trascinano spremendo le ultime energie dalle gambe dolenti, altri procedono per pura inerzia, uno si immola per amore. Quando vediamo il rifugio non resta che discesa: ahhh, sollievo.
La stanchezza ci pesa ancora quando dovremmo essere ormai rilassati al solo pensiero della doccia fresca. Solo sulla terrazza, davanti alla cena, ritroveremo la serenità, riuscendo finalmente a goderci il panorama delle luci di Merano, sprofondate nella valle caliginosa. Nel successivo mattino grigio ci tocca solo una breve risalita verso la funivia. Aspetta solo noi per precipitarsi giù nella valle, a farci ritrovare la calura afosa di luglio, l’autobus affollato, ma soprattutto il negozio che ci vende gli etnici grembiuli blu con i motti spiritosi. Ce li facciamo tradurre dal negoziante.

 Sergio Chiappino

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