ARCHIVIO GITE 2016: Alta Via 6 dei Silenzi

Dolomiti d’oltre Piave (16-24 luglio 2016)

 Dalla terra del Friuli
fino giù a Vladivostòk
entri in stanza in sole calze
oppur io ti faccio a tòc.

Con questo benvenuto, il gestore del rifugio al termine della prima tappa ci accoglie nel suo mondo. Professa la montagna come sofferenza e vive da eremita misantropo, come in un castello arroccato all’attacco della val Canal, come è conosciuta in Carnia la val Pesarina. Lui ne ha marcato l’imbocco apponendovi una bricola, il gruppo di pali che segnala l’inizio di un canale nella laguna veneta. Gode della compagnia di un solo aiutante, giovane discendente della famiglia che ha fondato il rifugio, e della Lobaria pulmonaria, un lichene scacciato dalla civiltà umana, che si rifugia nell’aria pulita di questa zona remota. È senz’altro la sistemazione più acconcia allo spirito dell’Alta Via 6 dei Silenzi, un tracciato tra le Dolomiti d’Oltre Piave, dimenticate, lontano dai circuiti del turismo e dell’alpinismo di massa, che ha invaso i luoghi più blasonati dei Monti Pallidi. Le scopriamo con un trek, un modo di camminare molto diverso dalle escursioni giornaliere verso una cima, un lago o chi per esso, e soprattutto dalle gite in cui si va e si torna per il medesimo sentiero. Non c’è una singola meta da raggiungere, unico premio per la fatica; ci sono invece una serie di punti d’interesse e dei tragitti, in cui ad ogni passo c’è qualcosa da scoprire, un’esperienza da godere o un incontro da fare. Inoltre, data la distanza da casa (il primo giorno ci sciroppiamo 600 chilometri di auto e altrettanti ce ne aspettano al rientro), è possibile che questa sia l’unica volta in cui vedremo molti dei luoghi attraversati. Per cui bisogna camminare a ritmo lento, fermandosi spesso per godere degli ambienti con tutti i sensi e cogliere tutte le occasioni di scoperta del genius loci. Ci sono poi le sere in rifugio, in cui si può ammirare il cangiare della luce su uno scenario. Il passante di Mestre ci ha offerto un buon suggerimento con lo svincolo di Preganziol, paese della bassa trevigiana, dove il fotografo Guido Guidi catturò i mutamenti della luce diurna in una casa abbandonata. La luce della sera lascia in ombra le valli; la sua linea di confine risale delicatamente il pendio occidentale fino all’enrosadira. La luna piena sale poi a illuminare la notte. La luce del mattino tenue rischiara di rosa i picchi, per poi scendere lentamente verso valle e plasmare le guglie. Piano piano avanza, sempre meno calda, sempre più in profondità, finché anche i canaloni sono al sole e la magia si dissolve.

Quella sera al Fratelli De Gasperi, il primo rifugio, è anche l’unica volta in cui non siamo raggiungibili dalle auto: infatti altrove ci sarà sempre una strada di accesso, di solito asfaltata, che rompe l’incanto e il silenzio. Per questo molti rifugi sembrano più orientati verso chi viene a pranzare a mezzogiorno o talvolta anche a cena, che verso chi cammina e pernotta. Hanno infatti un ricco menu alla carta, mentre i posti letto sono spesso ammassati e i bagni insufficienti per un gruppo numeroso. In effetti gente che cammina ne abbiamo vista ben poca: solo una ventina di persone l’anno percorre questa Alta Via. Noi quattordici abbiamo già quasi completato la stagione. Solamente in val Montanaia, il luogo più famoso tra quelli attraversati, incontriamo più di una decina di escursionisti in un giorno. In effetti molti sentieri non sembrano frequentemente battuti. Il primo giorno dobbiamo scavalcare tronchi caduti, che ostruiscono il sentiero, e un tratto franato che ci richiede prudenza. Nei ghiaioni rognosi, in compenso, i sentieri sono ben segnalati e spesso anche ben tracciati. Troviamo però non pochi cartelli che annunciano che qualche sentiero è stato dismesso, pure vicino ai rifugi e ai paesi. Anche un tratto di Alta Via in val Cimoliana è ufficialmente dismesso. In ogni caso, non avremmo potuto percorrerlo, perché presenta alcuni ricoveri in bivacco e persino uno in una minuscola grotta, che non sono praticabili da un gruppo numeroso. Più avanti un punto di pernottamento indicato sulla guida sembra essersi dissolto. È un vero peccato, che a breve distanza da una zona molto turistica come il Cadore ci sia questo abbandono. O Cortina o il nulla. D’altronde l’avevamo già sperimentato anni fa, percorrendo l’Alta Via 3. Sembra essere anche il destino di molta montagna dalle mie parti: anche in Piemonte si alternano zone famose, dove prima dell’aurora pullulano già gli escursionisti e i rifugi sono invivibili, ad altre, dove si può camminare otto ore incontrando solo un gallo forcello acquattato tra i rododendri e un’aquila appollaiata a bordo sentiero. Mi sarebbe piaciuto molto arrivare fino al Bosco del Cansiglio, che non ho mai visto. Prima o poi ci andrò, ma arrivarci dal casello di Vittorio Veneto, come un turista qualunque, anziché dopo dieci giorni a contatto con la natura, non consentirà di apprezzarlo nel modo più consono. Invece sembra che qui presuppongano che tutti vogliano arrivare in auto alla meta.
Un’altra presenza che latita sono i selvatici: non vediamo nessun mammifero, nemmeno la volpe quasi domestica del Pordenone, e neppure sentiamo il richiamo di un singolo capriolo. Pare che in val Montanaia ci siano camosci e stambecchi, ma forse nel giorno di caldo afoso, in cui la attraversiamo, si ritirano su per le crode o si rifugiano nei canaloni ombrosi, dove non corrono sentieri. Nessun fischio di marmotta allerta i cuccioli al nostro passaggio. I boschi sono spesso muti, senza canti di uccelli, né vento a farne frusciare le chiome. Silenzi, anche della natura. In compenso udiamo molti campanacci delle vacche al pascolo, quasi sempre da carne, nonostante gli alpeggi conservino il vecchio nome di casere. Non attraversiamo tantissimi luoghi adatti all’allevamento, perché questa zona di Dolomiti è molto impervia, con grandi estensioni di boschi ripidi e rocciosi, oltre che naturalmente di estesi ghiaioni di falda sotto le cime friabili e lungo i torrenti. Inoltre è paradossalmente povera d’acqua, nonostante il clima piovoso: c’è poca terra in grado di fare da spugna alle precipitazioni, per cui quando piove i torrenti si ingrossano a dismisura e scaricano verso valle le acque meteoriche, per poi tornare quasi asciutti in poche ore. (Forse è anche per questa carenza che i rifugi sono sempre in basso, vicino alle strade e ai paesi). Per via delle quote modeste, la riserva dei nevai normalmente si esaurisce già a inizio stagione. Una menzione speciale, tra gli alpeggi attraversati, va fatta per Casera Doana: qui una manciata di ragazzi, poco più che ventenni, gestisce un pascolo incantato, con una vista da sogno sulle montagne del Cadore, dal terzetto Civetta-Cadregon-Antelao fino alle Tre Cime. Tengono duro anche grazie ai contributi dell’Unione Europea per tenere falciati i prati.

E proprio da casera Doana parte uno dei più bei tratti del viaggio, lungo una cresta boscosa di faggi, aceri, abeti bianchi, pecci e larici. Siamo avvolti dalla fitta vegetazione, che ci isola dal mondo circostante, tanto visivamente dalle chiare cime svettanti, quanto acusticamente dai bassi rombi delle moto in valle. A destra e a manca il pendio precipita verde e fitto, lasciandoci come sospesi su un’isola allungata tra i dirupi. La pioggia della sera e la rugiada del mattino sono ormai afa, ma grazie a loro spessi strati di muschio e licheni ricoprono molte cortecce, anche quelle di faggio che invece dalle mie parti sono spoglie e grigie. Sento poco gli odori, altrimenti chissà quali inebrianti profumi potrei assaporare, di aghi che stanno tornando humus, come di muschio e di resina. Purtroppo per me, però, solo fiori di ginestre, caprifogli e poco altro hanno il tasso di chimica indispensabile ad attivare i miei recettori. Dall’unica radura contempliamo le cime e i detriti di falda ai loro piedi, per cui ci arrampicheremo nei giorni successivi. E in cima al più ostico di questi colatoi ci aspetta la visione più emozionante del viaggio. Saliamo scivolando all’indietro sulla ghiaia, schivando pietre smosse da chi sta sopra, posando il piede con il timore che il terreno ceda, sudando caldo e freddo. Ci aggrappiamo alle rocce per scampare al terreno traballante. Guardiamo nervosi l’altimetro, per capire quanto manca, perché verso l’alto non si vede che il canale senza sbocco, striscia di ghiaia incoerente tra pareti verticali. Finalmente in cima, ci affacciamo sulla val Montanaia, con il Campanile e il suo prato verde, giardino delle Esperidi dopo e prima di ore di ghiaia e detriti. Non possiamo che pensare all’unisono: «Terribilis est locus iste». O almeno lo pensiamo io e pochi altri, perché invece il gruppo urla in coro: «Togliamocela®!». Con molte persone esauste e snervate dalla salita sul ghiaione infido e il panorama migliore del viaggio proprio di fronte a noi, tutti sembrano avere il medesimo obiettivo: andarsene il prima possibile. È un desiderio comprensibile, che capita a chiunque abbia fatto un percorso impegnativo, che l’ha esaurito fisicamente e psichicamente, e ne aspetta altrettanto. Tuttavia credo che chi va in montagna da tanti anni dovrebbe imparare a gestirlo, perché impedisce di godersi dei momenti che capitano raramente: quante volte ancora verremo ad ammirare questo panorama remoto? Invece solo in tre ci ribelliamo e restiamo fermi ancora una mezz’ora, che sottrarremo con gioia allo svacco meridiano, per contemplare questi scenari. I pinnacoli di queste montagne così fragili sembrano davvero guglie di cattedrali gotiche. E il gotico è mio stile classico preferito, insieme al modernismo. Chissà poi perché mi viene da paragonarle a opere umane: ogni volta che vediamo qualche cosa di insolito, lo inquadriamo nelle categorie mentali che ci sono familiari, invece di essere così flessibili da crearcene di nuove e insolite alla bisogna. Chissà come le incasellano stambecchi e camosci, che sulle crode ci risiedono stabilmente, ci trovano rifugio e cibo, e non sono solo di passaggio per turismo, sport o avventura come noi bipedi.

Il viaggio si conclude idealmente a Erto, uno dei paesi colpiti dalla tragedia del Vajont. La padrona del ristorante dove ceniamo, che era ancora bambina quel 9 ottobre, ci racconta che la sera prima del disastro venne uno degli ingegneri della diga con l’autista. Suo padre, che quella notte sarebbe morto, gli esternò le sue preoccupazioni per quella montagna, ma quegli lo schernì come montanaro rozzo e ignorante. (Chissà se questo aneddoto è vero. Certo il suo valore didascalico lo rende un buon candidato ad essere un falso ricordo.) L’onda non investì in pieno il borgo vecchio, che però fu lo stesso dichiarato inagibile; i suoi abitanti furono ricollocati, termine asettico che indica la deportazione. Solo dopo anni di aspre lotte una minoranza riuscì a rientrare. Con i pochi soldi dei risarcimenti, che non furono rivalutati secondo l’inflazione allora galoppante (siamo negli anni Settanta), i superstiti furono costretti a costruire, più a monte del borgo vecchio, case in cemento armato con infissi in metallo colorato di giallo, senza cantina né garage, secondo un progetto per ecomostri disfunzionali uguali per tutti. La proprietaria del bar del paese ci confessa che lì dentro non si sente a casa propria, quando chiude la porta e resta sola. Il suo locale l’ha ingentilito con il legno, ma il porticato grigio e squadrato le è rimasto. Persino il laboratorio di Mauro Corona (l’irsuto ci appare misticamente al bar in una visione analcolica, anche se qualcuno sembra più incantato dalla bionda barista), che avevo sempre fantasticato essere in una casa in pietra del vecchio borgo, è sotto questi portici di cemento. La notte li sogno come se fossero un poligono sovietico, nel mezzo di un’esplosione nucleare. Il paese vecchio oggi è invece quasi del tutto abbandonato. Poche case sono ristrutturate, ancor meno vissute tutti i giorni; di molte è rimasto solo lo scheletro esterno. Faccio un giro fotografico prima che sorga il sole, nella nebbia dell’alba. Mi hanno spiegato che qui è un fenomeno comune, perché l’alta diga fa da tappo al flusso dell’aria nella valle. Alle cinque incontro una vecchia che spinge una carriola: a quest’ora del mattino, c’è più vita in questi paesini spopolati che sugli Champs-Élysées, come mi ha confermato una parigina trapiantata sull’Appennino. Una gatta grassa e rossiccia e mi scruta sospettosa mentre cerco di aggirarla circospetto, per fotografarla prima che scappi. Un gatto nero con una coda pelosa, perfetta compagnia di una strega, scappa al mio passaggio e si rifugia in una casa diroccata, da cui mi fissa con i suoi occhi gialli che brillano nel buio. Devo camminare con attenzione, per non calpestare le tantissime lumache e chiocciole, uscite per i vicoli dopo la pioggia della sera prima. Scritte sui muri, sparute e sommesse come gli abitanti, invitano alla resistenza e alla disobbedienza civile. Quanto sono invece più cariche di violenza, quelle analoghe sui muri della mia città. Il campanile ha battuto le ore per tutta la notte. Tanto, chi mai può svegliare con i suoi rintocchi?

Testo e foto Sergio Chiappino

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