ARCHIVIO GITE 2018: Pollino

22-29 settembre 2018

Dopo una levataccia alle tre del mattino e dopo un viaggio senza storia (per fortuna…) sbarchiamo felicemente a Lamezia, dove ci attende Emanuele che per tutta la settimana sarà nostro “duca, segnore e maestro” come fu Virgilio per padre Dante (Inferno II, 140).
Ci accorgiamo subito che Emanuele è un profondo conoscitore del massiccio del Pollino (e di tante altre cose…) nei suoi diversi aspetti, geologici, naturalistici, storici, politici, economici, demografici e sociologici. Soprattutto non è avaro del suo sapere, di cui anzi è prodigo nelle lunghe ore trascorse sul pullman mentre effettuiamo i necessari trasferimenti. Uomo di mondo, saggio e sperimentato, riuscirà a conciliare con soddisfazione di tutti l’eterna diatriba che ferve in tutte le sezioni del CAI, tra coloro che in nome della “lotta con l’Alpe” vogliono a tutti costi mettere nel carniere una qualche vetta o almeno un dislivello significativo e coloro che intendono invece camminare il minimo sindacale per meritarsi un pasto frugale e una sistemazione dignitosa per la notte. In realtà, come in tutti i trekking con Naturaliter, mangeremo e dormiremo benissimo. E infatti, prima di incominciare a camminare, facciamo una sosta gastronomica e culturale. Pranziamo a Papasidero, dove visitiamo la “Grotta del Romito”, che conserva preziose testimonianze del paleolitico superiore e soprattutto uno straordinario graffito raffigurante un bovide. Con la pancia piena ci mettiamo in marcia, divisi in due gruppi, uno di camminatori (o sedicenti tali…) e l’altro di coraggiosi che affrontano il “rafting” sulle suggestive acque del fiume Lao. Io non so nuotare (anche a casa preferisco la doccia alla vasca da bagno) e quindi non prendo neppure in considerazione la seconda opportunità. La nostra sarà davvero una “lunga marcia”, peraltro in un ambiente decisamente suggestivo, in mezzo a grandi boschi di querce, che si concluderà soltanto un poco prima del calar delle tenebre. Ci raggiunge in serata l’altro accompagnatore. È Mimmo in persona, uno dei fondatori di Naturaliter, che durante tutto il trek assicurerà la logistica e si farà carico di guidare le “colombe”, mentre il gruppo dei più agguerriti “falchi” continuerà a seguire Emanuele.
Dopo una ottima cena, è il momento del meritato riposo, perché l’indomani, domenica, ci attende la salita più importante, il Monte Pollino vero e proprio, che con i suoi 2246 metri è la vetta più alta dell’Italia meridionale. In realtà ci sarebbe la vicina Serra Dolcedorme, che è un po’ più alta, ma con un nome di profilo così basso non è certo in grado di competere con il Pollino.
Sono più di ottocento metri di dislivello sul lungo, che affrontiamo di slancio; riusciamo ad arrivare in vetta prima che le nebbie ci tolgano la vista sui due versanti, quello calabrese e quello lucano. Ammiriamo i bellissimi esemplari di “pino loricato” che esiste soltanto in questa zona ed è a rischio di estinzione, ridotto a pochi esemplari centenari che resistono ai fulmini sulle vette più alte, dove non arrivano le sterminate faggete che occupano i pendii sottostanti. Deve il suo nome alla corteccia a squame, che ricorda la corazza a squame dei gladiatori romani (avete presente in “Spartacus” , il gladiatore che rappresenta il pesce e combatte contro l’altro armato di rete e tridente?).
Molti di questo colossi sono al suolo, abbattuti dalle intemperie, e facciamo una foto vicino al “Patriarca”, vecchio di 1500 anni, che ancora si regge imponente, abbarbicato alle rocce con le enormi radici.
Il giorno successivo, per riposarci (si fa per dire), altra vetta. E’ il “Monte Alpi” che in realtà deve il suo nome alla sua somiglianza con una sega (in dialetto locale “arpi”). Sono circa 1800 metri, affrontati senza tappe intermedie e malgrado il forte vento, che si fa via via più freddo. A seguire un buon caffè e una birra nel sottostante villaggio di Latronico, che visitiamo guidati da Rocchino, un giovane locale che si esprime in stretto idioma lucano. Per fortuna abbiamo con noi Matteo, salernitano di nascita, che assicura una buona traduzione simultanea grazie alle comuni origini etniche, che risalgono addirittura al ducato longobardo di Benevento. Rientrati a Rotonda, Emanuele trova ancora il tempo di fare una breve visita al paese e all’interessante museo paleontologico in cui sono esposti i resti di enormi animali che abitavano una volta la zona come l’elefante antico e l’ippopotamo coi denti a sciabola.
Il programma è molto fitto e non dà tregua: il quarto giorno – è martedì – altra vetta. Questa volta si tratta del Monte Caramola. Durante la salita, troviamo un enorme fungo del tipo “vescia” (almeno tre chili). Si discute se sia meglio in insalata o in frittura, ma purtroppo, essendo nel parco, siamo costretti a lasciarlo. Nel tragitto di ritorno ci si ritrova in un rifugio. Veniamo accolti calorosamente (c’è il camino acceso) e ristorati con cioccolata calda e patate arrostite alla brace. Tutto questo mentre a Torino ancora si soffre il caldo afoso di un’estate che sembra non avere più fine. La sera arriviamo a Civita, straordinario villaggio abbarbicato sulle rocce, sospeso su quelle tristemente famose “Gole del Raganello” dove pochi mesi fa si è consumata la tragedia di quel gruppo di escursionisti travolti da un’improvvisa piena del torrente.

Curiosità su Civita

Case kodra

Le case del centro storico sono costruite tutte in pietra. Fonti storiche attestano che le stesse costruite dai primi albanesi erano di paglia e venivano bruciate in primavera per non pagare la tassa. In seguito essendo stato loro proibito di costruire in muratura, usavano intrecciare rami sechi e impastarli con argilla e fango tipico dell’uso macedone, queste erano chiamate kallazine. Solo più tardi furono costruite le prime case in pietra. Le abitazioni sono composte da 2 piani, il primo costruito da 1 o più ambienti con accesso principale sulla strada a pian terra. La sua grandezza corrisponde quasi sempre all’intera superfice della casa coperta da un solaio in legno sostenuto da muri in pietra, questi vani prendono luce dalla porta di ingresso a piano terra e da piccole finestre messe nella pare più estrema dell’ambiente, dove si trovano i locali usati come dispensa o magazzino. La curiosità delle abitazioni albanesi è la presenza di un grande camino “vetra” costruito da una grande cappa con forno pensile. La zona notte posta al piano superiore si accede internamente tramite una scala in legno, mentre l’uso della scala esterna sia nelle abitazioni più importanti che in quelle comuni risale all’XI secolo, la caratteristica è la presenza del ballatoio posto a 1° piano sotto questa si trova un locale per polli e maiali.
Aggirandoci per le stradine di questo meraviglioso borgo, si possono vedere tipiche casette battezzate Case Kodra, così chiamate in memoria dell’artista albanese Ibrahim Kodra che visitando Civita le ritrasse riconoscendo in esse elementi della sua pittura. Le 7 abitazioni si distinguono dalle altre per la curiosità morfologica che ripropone i tratti di un volto umano, riflesso della distribuzione degli spazi all’interno della casa.

 

I comignoli

Sempre a Civita si possono notare esempi di arte povera, i comignoli, frutto di fantasiosi artigiani di un tempo. Non si sa con precisione quando sia iniziata questa moda, ma i maestri erano soliti firmare la costruzione di una casa con un comignolo, i più particolari furono costruiti tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 quasi una gara tra artigiani per impreziosire la sommità delle abitazioni con questi piccoli capolavori. Oggi rimangono le testimonianze nella cura tramandata nei secoli, nel dare forme bizzarre e uniche tutte differenti a forma di torre merlata, di maschere, di anfore e spesso la loro struttura imponente non è proporzionata rispetto alla costruzione dell’ abitazione.
Aggirandosi per le strette stradine del borgo se ne vedono molti anche se il numero si è ridotto in seguito alle ristrutturazioni effettuate sugli edifici, ma sicuramente offrono uno spettacolo unico, con la loro struttura antica, resistono alla storia e al vento di tramontana del Pollino.

Il villaggio è ricco di storia, perché fondato e tuttora abitato da quella comunità di origine albanese, gli “Arbereshe”, fuggiti dal loro paese nel XV secolo. Nella piazzetta si erge il monumento a Giorgio Castriota detto Skanderbeg, l’eroe nazionale albanese che riuscì a tener testa alle orde dei Turchi musulmani.
Veniamo ospitati nei vari B&B del paese, con sistemazioni eccellenti in antiche case ristrutturate con gusto. La cena, nel ristorante “arbereshe” è decisamente “sibaritica”. Del resto la piana sottostante è proprio la “Piana di Sibari”, dove sorgeva la famosa città greca di Sibari, nota in tutta la Magna Grecia per la ricchezza dei suoi abitanti, fino a divenire sinonimo di opulenza e di mollezza. Sibari fu poi annientata dalla vicina Crotone e le coste, divenute paludose per il disboscamento dei monti, furono per secoli inabitabili a causa della malaria, mentre i pochi abitanti si ritiravano a vivere sulle montagne. Da marinai e pescatori quali erano al tempo dei Greci, i Calabresi divennero quindi montanari e pastori e tali furono anche gli immigrati albanesi. Della cultura Arbereshe, oltre alla lingua, rimane ancora il ricco patrimonio di costumi tradizionali, oltre al rito religioso, divenuto cattolico da ortodosso che era in origine, ma di rito orientale o bizantino.
Finalmente un giorno di riposo. Dopo una colazione “da Sibariti”, andiamo a visitare due pittoreschi villaggi, Morano e Altomonte. Anche qui castelli, antiche chiese, vicoli tortuosi e panorami mozzafiato. Salite ripidissime (da queste parti sembra che non ci siano discese, ma soltanto salite…).
Prima di ritornare a Civita, scendiamo anche al Ponte del Diavolo che sovrasta le gole del Raganello da un’altezza di trentasette metri. Al termine della giornata, qualcuno calcola che anche oggi ci siamo fatti i nostri settecento metri di dislivello.
Terminata la giornata di “riposo”, è la volta di un’altra vetta, il Monte Manfriana. Ma il vento è sempre più freddo e forte e così il gruppo di nuovo si divide. I più coraggiosi, i falchi, si spingono fino in vista della vetta, mentre le colombe rimangono sul pullman e al riparo di un vecchio rudere. Dolce far niente…
In serata raggiungiamo la nostra ultima sistemazione: Villapiana Lido, in riva al mar Ionio. Nessuna speranza di fare il bagno, il mare è decisamente agitato.
Il trek finisce alla grande: l’ultimo giorno si parte dall’antico borgo di Cerchiara per raggiungere il monastero della Madonna delle Armi. Rassicuriamo subito i pacifisti: Armi in dialetto locale sono le grotte, nome che deriva dal greco, ma si ritrova anche dalle nostre parti;“barme” o “arme” sono infatti i ripari sotto le rocce, da cui anche il nome del mio paese, Balme. I falchi raggiungono una vetta soprastante il santuario, mentre le colombe iniziano a razzolare affamate intorno a Mimmo che allestisce una prelibata merenda a base di salumi e formaggi, ma soprattutto di quel fantastico pane che cuociono proprio a Cerchiara e che pare sia stato scelto dai gourmets del più alto livello internazionale per accompagnare il prosciutto San Daniele, niente meno.
A questo punto si impone una tappa di nuovo a Cerchiara, dove svaligiamo letteralmente il locale fornaio, non solo del suo pane, ma dei taralli e di altri deliziosi pasticcini calabresi. Qualcuno, non pago, approfitta anche della sosta per svaligiare anche il frutteto del fornaio, a caccia di mele e di fichi squisiti, appassiti sull’albero e dolcissimi.
Anche il viaggio di ritorno non ha storia (per fortuna…) ed occupa l’intera giornata, saltando dal pullman a un treno e poi a un altro treno.
Grazie alle nostre guide di Naturaliter, Mimmo e Emanuele, simpatici e professionali come sempre e grazie a Marialuisa e a Mario, sempre attenti ad assicurare che tutto funzioni e a seguire (e ad aspettare) i più lenti.
Alla prossima…

Giorgio Inaudi
Curiosità su Civita di Marialuisa Cravero
Foto di Antonio Carretta e Maurizio Bortott

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